Ventisette gennaio: una data che anno dopo anno suscita sempre meno interesse e ricordi nell’animo e nei pensieri di noi tutti. Una data, un numero che non ci dice niente.
Perché non stiamo parlando del primo maggio o del 25 aprile. Ecco si: il 25 aprile, il giorno della Liberazione. Una Liberazione conquistata con spargimento di sangue e dolore, soprattutto da parte di un popolo che un uomo decise di sterminare, gli ebrei.
Ventisette gennaio: il giorno della commemorazione. Un minuto di silenzio nelle scuole e nulla più in tutta la comunità italiana, ma forse anche mondiale. Una commemorazione ricordata per lo più grazie a film come Schindler’s List, La Vita è Bella e Il Bambino con il pigiama a righe e nulla più.
Un giorno in cui le storie vere, le storie di quella generazione – ormai quasi scomparsa –, che la guerra e la prigionia l’hanno vissuta in prima persona, dovrebbero riaffiorare nella mente di ognuno come se quegli eventi fossero stati vissuti da chiunque.
E invece, oggi giorno, la nuova generazione sembra impassibile davanti a tanto spargimento di sangue e a tanta violenza. “E’ storia!”, “Ormai è passato!” sono frasi che spesso si rincorrono e non ci permettono di soffermarci a scrutare con l’occhio della nostra coscienza ad episodi che hanno segnato la “morte” dell’umanità.
Si! Perché sterminare una popolazione intera, senza alcun rispetto non per la “Razza” ma per il “Genere Umano” in todo, è sintomo della Morte dell’umanità, dell’Uomo in quanto tale.
Una consapevolezza che con il tempo, a causa forse della frenesia della vita di tutti i giorni, a causa degli impegni sempre maggiori e più importanti rispetto al passato (andare in palestra o al cinema, piantonare il televisore per non perdere nemmeno un secondo della partita di calcio della squadra del cuore), una consapevolezza che con il tempo è andata scemando, fino ad addormentarsi nel fondo della nostra coscienza in attesa che un giorno, qualcuno o qualcosa, la risvegli e la faccia riaffiorare magari più vigorosa di prima.
Perché le storie di quegli uomini e di quelle donne, all’epoca dei fatti bambini innocenti, peccatori senza peccato, criminali innocenti di un regime la cui smania di potere li ha voluti morti, le loro storie, quelle storie forse sono le uniche che andrebbero lette, per apprendere, per comprendere, per fare la storia.
Dai Gulag sovietici ai campi di concentramento tedeschi, dallo sterminio di un intero popolo come i cambogiani, alla morte degli innumerevoli ebrei, al genocidio degli incas e degli aztechi. Queste sono forse le storie che dovrebbero essere lette per fare la storia.
Come la testimonianza di Natalia Tedeschi: «Sono nata a Genova il 19 giugno del 1922. Sono di famiglia ebrea. I miei fratelli, al momento delle leggi razziali, erano tutti e tre all’università… Io nel 1938 – avevo sedici anni – ho dovuto interrompere gli studi. Poi, con tutte le varie vicissitudini della guerra, siamo sfollati con mia mamma e mia nonna a Saluzzo. Dei miei fratelli, uno era andato con i partigiani, uno era nascosto a Torino e l’altro è andato in Svizzera. Io sono rimasta sola con mia mamma e con mia nonna.
Un giorno, mentre eravamo lì a Saluzzo, sono scesa nella hall di questo piccolissimo albergo, dove eravamo, e sono arrivati due SS italiani. Sento che dicono “Siamo venuti ad arrestare quella famiglia di ebrei”».
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